Ricorso del presidente della giunta della Regione Basilicata, on.
dott. Filippo Bubbico, rappresentato e difeso, in virtu' di procura a
margine  del  presente  atto,  giusta  delibera  di  giunta regionale
n. 2201 del 28 novembre 2003 dal prof. avv. Angelo Piazza e dall'avv.
Maria  Carmela  Santoro  e  domiciliato presso lo studio del primo in
Roma alla piazza di Spagna n. 35;

    Nei  confronti  del  Presidente del Consiglio dei ministri per la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale ai sensi dell'art. 127
Cost.:
        del   decreto-legge   30   settembre  2003,  n. 269,  recante
«Disposizioni  urgenti  per  favorire  lo  sviluppo  e  la correzione
dell'andamento   dei   conti   pubblici»  pubblicato  nella  Gazzetta
Ufficiale  n. 229  del  2 ottobre  2003 supplemento ordinario n. 157,
relativamente   all'art.   32   («Misure   per   la  riqualificazione
urbanistica,   ambientale   e   paesaggistica,  per  l'incentivazione
dell'attivita'  di  repressione dell'abusivismo edilizio, nonche' per
la  definizione  degli  illeciti  edilizi e delle occupazione di aree
demaniali»);
        della  legge  di  conversione  n. 326  del  24  novembre 2003
(pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale n. 274 del 25 novembre 2003 -
supplemento ordinario n. 181), relativamente all'art. 32.
    Il  decreto-legge del 30 settembre 2003, n. 269 (pubblicato nella
Gazzetta  Ufficiale n. 229 del 2 ottobre 2003 - supplemento ordinario
n. 157/L),  e  la  legge  di conversione del 24 novembre 2003, n. 326
(pubblicata   nella   Gazzetta  Ufficiale  del  25  novembre  2003  -
supplemento  ordinario  n. 181),  recanti  disposizioni  urgenti  per
favorire  lo  sviluppo  e  per la correzione dell'andamento dei conti
pubblici,  all'art. 32  formulano  una  complessa  normativa  «per la
riqualificazione   urbanistica,   ambientale   e  paesaggistica,  per
l'incentivazione   dell'attivita'   di   repressione  dell'abusivismo
edilizio,  nonche'  per la definizione degli illeciti edilizi e delle
occupazioni di aree demaniali».
    Tale  specifica  norma,  sia  nella  formulazione  originaria del
decreto-legge sia in quella definitiva a seguito della conversione in
legge, si pone in contrasto con principi e norme costituzionali.
    1.  -  La  normativa  censurata  viola innanzitutto le competenze
legislative   regionali   concorrenti   in  materia  di  governo  del
territorio stabilite dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione e
conseguentemente  lede  anche  gli interessi finanziari della stessa,
con violazione dell'art. 119 della Costituzione.
    Infatti  il  decreto-legge  n. 269  del  2 ottobre 2003 prevede e
disciplina  il  rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria
delle  opere esistenti, ultimate entro il 31 marzo 2003, non conformi
alla   disciplina   vigente   e   stabilisce   l'applicazione   delle
disposizioni  di  cui  ai  capi  IV e V della legge 28 febbraio 1985,
n. 47,  e  dell'art.  39  della  legge 23 dicembre 1994, n. 724, alle
opere abusive sanabili.
    L'intervento   statale  relativo  al  condono  edilizio  viene  a
sovrapporsi  in questo modo, per gli aspetti amministrativi legati al
condono-sanatoria,  alla  legislazione regionale, la quale e' l'unica
legittimata   dalla  Costituzione  a  disciplinare  compiutamente  la
materia edilizia.
    Sul  punto  si richiama la recente sentenza 1° ottobre 2003 della
Corte  costituzionale,  in  base  alla  quale: «La materia dei titoli
abilitativi ad edificare appartiene storicamente all'urbanistica che,
in  base all'art. 117 Cost., nel testo previgente, formava oggetto di
competenza concorrente. La parola "urbanistica" non compare nel nuovo
testo dell'art. 117, ma cio' non autorizza a ritenere che la relativa
materia  non sia piu' ricompresa nell'elenco del terzo comma: essa fa
parte del "governo del territorio". Se si considera che altre materie
o funzioni di competenza concorrente, quali porti e aeroporti civili,
grandi  reti  di  trasporto e di navigazione, produzione, trasporto e
distribuzione nazionale dell'energia, sono specificamente individuati
nello  stesso  terzo comma dell'art. 117 Cost. e non rientrano quindi
nel "governo del territorio", appare del tutto implausibile che dalla
competenza  statale  di  principio  su  questa  materia  siano  stati
estromessi   aspetti   cosi'   rilevanti,   quali   quelli   connessi
all'urbanistica,  e che il "governo del territorio" sia stato ridotto
a poco piu' di un guscio vuoto.
    ...  Giova  premettere che i principiª della legislazione statale
in  materia di titoli abilitativi per gli interventi edilizi non sono
rimasti, nel tempo, immutati, ma hanno subito sensibili evoluzioni.
    Dal  generale  e indifferenziato onere della concessione edilizia
(legge  n. 10  del  1977)  si  e'  passati all'autorizzazione per gli
interventi   di   manutenzione   straordinaria   e   fra   questi  al
silenzio-assenso  quando  non  siano  coinvolti  edifici  soggetti  a
disciplina  vincolistica (legge n. 457 del 1978). Il silenzio-assenso
e'  stato  successivamente  ampliato  ed  esteso  e  fatto oggetto di
specifiche  previsioni  procedurali  (legge  n. 94  del  1982, che ha
convertito il decreto-legge n. 9 del 1982). Alle Regioni e' stato poi
attribuito  (legge  n. 47  del  1985)  il  potere  di semplificare le
procedure  ed  accelerare  l'esame  delle domande di concessione e di
autorizzazione  edilizia  e  di consentire, per le sole opere interne
agli  edifici l'asseverazione del rispetto delle norme di sicurezza e
delle  norme  igienico-sanitarie  vigenti, secondo un modello che, in
qualche modo, anticipa l'istituto della denuncia di inizio attivita'.
Ed  ancora  (decreto-legge  n. 398  del  1993  convertito nella legge
n. 493  del  1993) sono state nuovamente regolate le procedure per il
rilascio della concessione edilizia, eliminando il silenzio-assenso e
prevedendo  in sua vece la nomina di un commissario regionale ad acta
con  il  compito di adottare il provvedimento nei casi di inerzia del
comune. Si e' giunti quindi alla disciplina sostanziale e procedurale
della  denuncia  di  inizio  attivita'  (DIA)  per  taluni  enumerati
interventi  edilizi  imponendo  alle Regioni l'obbligo di adeguare la
propria legislazione ai nuovi principi (legge n. 662 del 1996)».
    E'  dunque  lungo questa direttrice, in cui lo Stato ha mantenuto
la  disciplina dei titoli abilitativi come appartenente alla potesta'
di  dettare  i  principiª  della materia, che avrebbero, se del caso,
dovuto muoversi le disposizioni impugnate.
    Se  si  considerano  l'edilizia e l'urbanistica come afferenti al
«governo  del  territorio»,  e quindi incluse ai sensi dell'art. 117,
terzo  comma,  Cost., tra le materie a competenza concorrente, spetta
esclusivamente  alla  Regione  la  competenza  a legiferare e dettare
disciplina  di  dettaglio, pur nel rispetto dei principi fondamentali
contenuti nella legislazione dello Stato.
    E'  evidente,  invece,  che  la  disciplina del condono contenuta
nell'art. 32  del  decreto-legge  n. 269  del 2003 non costituisce un
insieme  di  principi  fondamentali,  in quanto, come affermato dalla
stessa  Corte  costituzionale  (cfr. Corte  costituzionale,  sentenza
n. 177  del  1988), «non si possono considerare principi fondamentali
le  norme  che  non  siano  espressive di scelte politico-legislative
fondamentali  o  quantomeno,  di criteri o modalita' generali tali da
costituire  un  saldo  punto  di riferimento costante nel tempo ed in
grado di orientare l'esercizio del potere legislativo regionale».
    Non possono, quindi, considerarsi principi fondamentali, anche al
di  la'  di una loro eventuale autoqualificazione, le norme che, come
quelle  contenute  nell'art. 32  del decreto-legge n. 269 del 2003 in
materia di condono edilizio, sono sostanzialmente dotate di una forza
autoapplicativa  ed  hanno  una  natura sostanzialmente eccezionale e
derogatoria della disciplina vigente.
    Sulla  questione si e' espresso con una recentissima ordinanza di
rimessione della questione alla Corte costituzionale (la n. 27 del 20
novembre  2003)  il  TAR  Emilia-Romagna  -  Sez. di Parma, rilevando
chiaramente   che  «... come  e'  stato  ben  osservato  anche  dalla
dottrina,  con  il  condono lo Stato non detta principi generali (che
sono  a  lui  riservati)  ma  introduce  un'eccezione,  invadendo una
competenza  regionale,  anche  se ai primi commi dell'art. 32 il d.l.
n. 269/2003 si preoccupa di dichiararle salve.
    Al  riguardo  ...  le statuizioni condonistiche sono estremamente
precise e dettagliate, e fissano in modo esaustivo ogni aspetto della
materia,  per  cui  il  riferimento  alla competenza regionale per il
«rispetto  delle condizioni dei limiti e delle modalita' del rilascio
del  titolo  abilitativo  sanante»  non  puo' che limitarsi di fatto,
nonostante la ridondanza dell'espressione, che ad aspetti di semplice
dettaglio del procedimento.
    Sembra pertanto che il legislatore statale abbia esorbitato dalla
sua  competenza  che  consiste nella semplice emanazione dei principi
fondamentali,  che  non  possono  essere  di  dettaglio o addirittura
regolamentari.
    Ne'  puo'  fondatamente  affermarsi che nella specie si tratta di
principi   generali   dell'ordinamento   giuridico   e   di   riforma
fondamentale   economico-sociale:   si   tratta  invece  soltanto  di
introduzione di un sistema moralmente discutibile per reperire subito
e comunque risorse finanziarie».
    In   conseguenza  delle  suddette  violazioni,  appare  in  tutta
evidenza  come le disposizioni finiscano per incidere sugli interessi
finanziari  della  Regione,  con  sottrazione  di  risorse all'ambito
regionale  e  locale,  in  vantaggio del bilancio dello Stato. Appare
chiaro,  infatti,  che  il  venir  meno dell'applicazione di sanzioni
amministrative  e la definitiva regolarizzazione di abusi finisce per
creare   le  premesse  per  ulteriori  interventi  di  riassetto  del
territorio  con  utilizzazione  di risorse della Regione e degli enti
locali,  senza  che sia previsto in modo esplicito la possibilita' di
utilizzare le risorse derivanti dal pagamento degli oneri imposti per
la  regolarizzazione  stessa.  In  altri  termini,  lo  Stato incassa
risorse  finanziarie  depauperando  la  Regione  e  gli enti locali e
creando ulteriori dissesti territoriali le cui conseguenze in termini
negativi  si  riverberano  direttamente  in  capo  a  Regione ed enti
locali.  Non  pare  la  strada  migliore per la corretta applicazione
dell'art. 119 della Costituzione.
    2.   -  La  normativa  censurata  viola  inoltre  i  principi  di
eguaglianza,   ragionevolezza,  buona  amministrazione  e  di  tutela
ambientale, articoli 2, 3, 117, terzo comma, e 97 della Costituzione.
    Il carattere della normativa sul condono e' sicuramente quello di
norma  del  tutto  eccezionale.  In  Italia  il condono e' gia' stato
varato  due  volte  a distanza di circa otto anni, con la legge n. 47
del 1985 e con la legge n. 724 del 1994.
    Una   ulteriore   reiterazione   di   tale  soluzione  non  trova
giustificazione  sul  piano della ragionevolezza, come gia' affermato
dalla  Corte  costituzionale  (cfr.  Corte  costituzionale,  sentenza
n. 427 del 1995), in quanto finisce per vanificare del tutto le norme
repressive   di   quei  comportamenti  ritenuti  illegali  in  quanto
contrastanti con la tutela del territorio.
    Vero  e'  che,  come  osservato della stessa Corte costituzionale
(cfr.  soprattutto  le  sentenze  nn. 369/1988,  169/1994,  416/1995,
427/1995  e  256/1996),  le  norme  sul  condono prendono atto di una
situazione  di  illegalita'  di  massa che si intende ricondurre, per
esigenze  di  carattere  economico-sociale  e  contemporaneamente per
esigenze  di bilancio che spingono a ricercare spasmodicamente pronte
risorse  finanziarie, nell'alveo del diritto, con attribuzione ad una
fattispecie  mediatrice (l'autodenuncia) dell'efficacia di estinzione
dell'illiceita';   ma   le  stesse  sentenze  sottolineano  che  tale
esercizio   del   potere   di   clemenza   deve  avere  carattere  di
eccezionalita'  e  di chiusura di un'epoca, perche' in caso contrario
non  giustificherebbe il contrasto insito nella natura per cosi' dire
premiale  dell'abusivismo, con il comportamento della maggioranza dei
cittadini  onesti  e  osservanti la legge, con conseguente violazione
dei   principi   di   eguaglianza,   di  ragionevolezza  e  di  buona
amministrazione.
    Deve  tenersi  conto,  inoltre,  che  una  rottura del menzionato
carattere  eccezionale  della  misura  condonistica  attenuerebbe  le
remore  della generalita' dei soggetti alla commissione di abusi, per
la  speranza, ed anzi per la certezza, che in un prossimo futuro tale
misura   sarebbe   senz'altro   riadottata   e,   per   altro  verso,
comporterebbe nei pubblici poteri un senso di sfiducia, di inutilita'
delle  misure  repressive  e  di  inammissibile lassismo, a sua volta
generatore di ulteriori illeciti urbanistico-edilizi.
    In  particolare la Corte, con la sentenza n. 416 del 1995, non ha
legittimato  l'equazione  fra carenza di controllo e nuova necessita'
di  condono,  preannunciando sostanzialmente un eventuale giudizio di
incostituzionalita'  qualora  in futuro fosse stata emanata una nuova
legge  al riguardo, soprattutto (come di fatto e' ora avvenuto) nella
forma della mera riapertura dei termini precedentemente scaduti.
    Infatti,  la  Corte ha osservato che sarebbe stato inevitabile un
giudizio  negativo  nel  caso  di  altra reiterazione della norma sul
condono,  soprattutto  con  ulteriore  e  persistente spostamento dei
termini  temporali  di riferimento del commesso abuso edilizio, anche
perche'   la   gestione   del  territorio  sarebbe  stata  certamente
compromessa   sul   piano  della  ragionevolezza  da  una  ciclica  o
ricorrente  possibilita'  di  condono  in  sanatoria  con conseguente
convinzione di impunita'.
    In  particolare  la  suddetta  pronuncia  sottolinea  come:  «...
Ingiusto e discriminatorio sarebbe, altresi', il nuovo condono per il
futuro, attesoche' esso tenderebbe a fuoriuscire dalla eccezionalita'
e singolarita' che caratterizza il condono della legge n. 47 del 1985
ed a farsi sistema. Un sistema che precluderebbe l'applicazione anche
in  futuro  delle  sanzioni previste dalla legislazione urbanistica e
che,  scardinando con la sua reiterazione il sistema della legalita',
violerebbe  il principio di uguaglianza dei cittadini producendo, nel
contempo,  le  condizioni  per  un  ulteriore  degrado  ambientale  e
amministrativo.
    In  proposito  si  richiama la sentenza n. 369 del 1988 di questa
Corte,  con la quale si afferma che «il condono puo' giustificarsi in
circostanze  eccezionali,  quando il legislatore intenda imprimere un
nuovo orientamento alla disciplina di una materia e sia percio' quasi
"necessitato"  nel  cancellare il passato, ad incidere sulle sanzioni
penali poste a rafforzamento di quelle extra-penali».
    Nulla  di  tutto  questo sarebbe riscontrabile nel nuovo condono.
Infatti  se  il condono della legge n. 47 del 1985 pote' considerarsi
legittimo  solo  in  quanto  «eccezionale»  e  «singolare»,  cio' non
potrebbe  certo valere per il nuovo condono che contraddirebbe, senza
mutare  sul  piano  generale,  i  principi e i valori della normativa
urbanistica,  convertendosi  in norma di in giustificato privilegio e
insieme  strumento di produzione di risorse statali sostitutive della
imposizione fiscale, tale essendo secondo la ricorrente, il principio
informatore  stesso  del  condono edilizio. Ne deriverebbe la lesione
dei  principi  costituzionali  surricordati  (artt. 3, 97 e 117 della
Costituzione)  nonche'  la  lesione  dei  principi fondamentali dello
Stato di diritto.
    La   gestione   del  territorio  sulla  base  di  una  necessaria
programmazione   sarebbe   certamente  compromessa  sul  piano  della
ragionevolezza   da   una   ciclica   o  ricorrente  possibilita'  di
condono-sanatoria  con  conseguente  convinzione  di impunita', tanto
piu'  che  l'abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora
non  segua  la  demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il
semplice  pagamento  di oblazione non restaura mai l'ordine giuridico
violato,  qualora  non comporti la perdita del bene abusivo o del suo
equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale».
    Un'eccezione non puo' quindi risolversi in un principio.
    Inoltre,  rilevante e' la considerazione - come sopra accennato -
che il condono realizza un sistema ingiusto e discriminatorio proprio
nei  confronti  dei  cittadini  rispettosi delle leggi, che si vedono
privare  di  quei  beni  che  anch'essi  avrebbero  potuto  costruire
violando  le norme, e che dall'altro sarebbero costretti, soprattutto
in  mancanza  delle specifiche situazioni di diritto soggettivo, esse
sole  salvaguardate  dalla  legislazione  condonistica,  a  subire il
degrado  urbanistico prodotto dall'illegalita' edilizia, riemersa con
ostentazione  e legalizzata con rischio che in futuro si producano le
condizioni per un ulteriore degrado.
    Infine,  sembra  indubbio  che  il  condono (come nel caso qui in
esame)  introduce  di  fatto  deroghe, e quindi limitate varianti, ai
piani  regolatori,  sanando  costruzioni  del  tutto  contrarie  alle
disposizioni  in  essi  contenuti,  con  invasione,  anche sotto tale
profilo,  delle  competenze  al  riguardo del legislatore regionale e
degli   enti  locali,  e  creando  conseguentemente  un  vulnus  alla
disciplina urbanistica dettata dalla Regione.
    3.  -  Nel  testo dell'art. 32 conseguente alla conversione vi e'
una   ulteriore   innovazione,   che,   apparentemente,   mira   alla
semplificazione,  ma,  nella  sostanza,  e'  foriera di contenuti che
vanno   anche   in  questo  caso  contro  l'indicazione  della  Corte
costituzionale  (sentenza  n. 302 del 9-10 marzo 1988) sul riparto di
competenze in materia paesistica.
    Si  tratta  del  comma 43 che ha modificato l'art. 32 della legge
n. 47 del 1985, di fatto stabilendo la possibilita' di pervenire alla
formulazione  dei  pareri,  fra  cui  quello  paesistico, mediante la
conferenza dei servizi.
    La  disposizione  stabilisce  anche  che  in tal caso il motivato
dissenso  di una sola delle amministrazioni partecipanti, compresa la
soprintendenza   competente,   preclude   il   rilascio   del  titolo
abilitativo edilizio in sanatoria.
    Si  tratta  di  disposizione  che innova in maniera inaspettata e
contraddittoria.
    Finora  era  in  vigore  un assetto dei poteri e delle competenze
secondo cui, anche alla luce dell'art. 12 della legge n. 68/1988, che
aveva  recepito  il  contenuto  della  citata  sentenza  della  Corte
costituzionale,  la  competenza ad emanare i pareri paesistici di cui
all'art. 32  era  delle  Regioni (o degli enti territoriali da queste
subdelegati),  mentre  al  Ministero  ed  ai  suoi  uffici centrali e
periferici   era   attribuita   la   potesta'   di  annullamento  dei
provvedimenti  emanati  dall'autorita'  delegata  e subdelagata, alla
stregua delle nuove autorizzazioni paesistiche.
    Sulle  modalita' di esercizio di tali funzioni e sulla estensione
della potesta' di annullamento ministeriale si e' andata consolidando
una  giurisprudenza,  secondo cui la potesta' di annullamento attiene
ai  profili  di  legittimita',  senza  mai  estendersi al merito, non
potendosi  mai  verificare  che  l'Autorita'  statale  sostituisca un
proprio giudizio di merito a quello emanato dall'autorita' delegata o
subdelegata  (in  tal senso Cons. Stato, A.p. 4 settembre 2001, n. 9;
da ultimo Cons. Stato, Sez. VI, 16 giugno 2003, n. 3398).
    Orbene la nuova formulazione dell'art. 32 della legge n. 47/1985,
introdotta  dall'art. 32  del  decreto-legge n. 269/2003, finisce per
distruggere   l'equilibrio   fra   le   attribuzioni  di  competenze,
riattribuendo  alla Soprintendenza una competenza di merito, e non di
solo  annullamento  per  motivi  di  legittimita',  atteso  che nella
conferenza  di  servizi  essa  potrebbe esprimere il proprio motivato
dissenso,  idoneo  a provocare il rigetto della istanza, senza alcuna
possibilita' di una riformulazione del parere.
    Come  dire  che,  con  una  disposizione apparentemente innocua e
presentata  come  finalizzata  alla  semplificazione del procedimento
(conferenza  dei  servizi)  lo  Stato  si  e'  riappropriato  di  una
competenza  di merito che la Corte costituzionale e la giurisprudenza
avevano inequivocabilmente ritenuto spettante alle Regioni.
    4.  -  Infine  deve  rilevarsi  che con la normativa censurata il
Governo  ha  violato il principio di leale collaborazione tra Stato e
Regioni,  principio  che  implica  il «contemperamento dei rispettivi
interessi»,  e  che e' stato espressamente costituzionalizzato con la
riforma  dell'art. 120  Cost.  operata  dalla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3.
    La   giurisprudenza,   diffusa,  della  Corte  costituzionale  ha
delimitato  il  principio  di  leale  collaborazione (a volte facendo
riferimento  ad  un  concetto  di  collaborazione  «concordata» tra i
diversi  livelli  di Governo) facendo richiamo all'art. 5 della Cost.
(decisione  n. 151 del 1986, n. 482 del 1995, n. 341 del 1996, n. 242
del 1997, n. 19 del 1997, n. 55 del 2001).
    Tra   l'altro,   detto   principio   era   gia'   presente  nella
giurisprudenza  comunitaria,  naturalmente  con  applicazione tra gli
organismi  comunitari  e  quelli  degli Stati membri (Corte giustizia
Comunita'  europee,  4  luglio  1996,  n. 50/94/1996; Corte giustizia
Comunita' europee, 10 giugno 1993, n. 183/91/1993).
    Il  principio  appare  violato  dalle  numerose  disposizioni  di
dettaglio  contenute nell'art. 32 oggetto del ricorso che introducono
una  disciplina di singoli istituti inerenti il condono e gli effetti
di  esso  sul territorio e la sua gestione senza che la Regione abbia
espresso  un  parere  positivo  o  abbia partecipato in altro modo al
procedimento  di  formazione  della volonta' legislativa. Anzi, dette
disposizioni finiscono, indipendentemente se intese di dettaglio o di
principio,   per   mortificare   ogni   politica  di  programmazione,
pianificazione  e  tutela  del  territorio  da  parte  della Regione,
minando  l'azione  pubblica  diretta  al  perseguimento  di interessi
territoriali e paesistici che non sono nella disponibilita' esclusiva
di nessun livello di Governo, ma che pretendono la funzionalizzazione
di  ogni  intervento normativo ed amministrativo di qualsiasi livello
in   un  quadro  di  coerenza  e  condivisione  di  obiettivi.  Nella
fattispecie   tutto  cio'  non  e'  stato,  rimanendo  la  disciplina
contestata  incoerente  e resa senza alcuna forma di partecipazione o
contributo da parte delle regioni.